Il nuovo art. 2103 c.c. Mutamento mansioni e jus variandi tra esigenze di riforma e necessità di contemperamento degli interessi.

La riforma della disciplina delle mansioni opera la riscrittura dell’art.2103 c.c. da parte del D.lgs. n. 81/2015 dopo un lungo silenzio del legislatore in materia. 

La riforma dell’art. 2103 c.c.

L’oggetto dell’obbligazione di lavorare è solitamente determinato mediante l’indicazione della << qualifica>> o del << livello>> che descrivono le mansioni e, cioè, le attività e o i compiti corrispondenti alla prestazione di lavoro promessa.  Al datore di lavoro è attribuito il potere giuridico di individuare quale mansione, tra quelle previste e ricomprese nella qualifica o livello attribuito, il lavoratore è obbligato ad eseguire. Il potere direttivo viene dunque individuato come potere giuridico, e ciò in quanto specifica l’oggetto della obbligazione di lavorare ed altresì stabilisce il modo in cui questa prestazione debba essere adempiuta. 

Da sempre siamo abituati a pensare al concetto di mansioni così come espresso dall’art. 2103 del cod.civ., nella sua formulazione ante riforma ossia: “Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per cui è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione (…)”. 

Una formulazione che dunque, sin dalla modifica apportata dell’art. 13 della Legge 300 del 1970, ha rappresentato per i datori di lavoro, un forte strumento di rigidità nella gestione del rapporto di lavoro e che da sempre ha comportato una serie di difficoltà “operative” nella gestione dello stesso. Altro intervento significativo operato fu anche la più chiara specificazione del limite posto al potere di variazione della mansione, individuandolo nel criterio dell’equivalenza che le nuove mansioni devono presentare rispetto alle precedenti. 

Esigenze di riforma e profili interpretativi

Orbene, una modifica normativa così fatta, che introduce quale strumento di tutela per il lavoratore il criterio di equivalenza delle mansioni assegnate rispetto a quelle precedentemente svolte non poteva essere scevra da problemi interpretativi che, in quanto tali, richiedessero l’intervento della giurisprudenza per essere riempiti di specifico contenuto ed adattati alle singole fattispecie. Ed è così che sul tema della equivalenza delle mansioni, era inevitabile che ruolo centrale fosse svolto dalla giurisprudenza. 

Vi è da dire che la giurisprudenza sul punto ha presentato anche aspetti negativi, che discendono dalla genericità del concetto di equivalenza al quale l’art. 13 affida la funzione di segnare un limite al potere datoriale di variazione della mansione. Ed essa ha difatti individuato, quale bene primario da tutelare, la professionalità del lavoratore intesa come bagaglio di conoscenze ed esperienze, la cui piena utilizzazione o arricchimento devono essere consentiti dalle nuove mansioni. Detta interpretazione non è certo foriera di certezza nella possibilità di gestione aziendale.  Ad ogni modo bisogna riconoscere che la giurisprudenza ha compiuto un notevole sforzo interpretativo e di riempimento. Essa è infatti riuscita ad aggiornare la nozione di equivalenza elasticizzandola, sia in ragione del soddisfacimento di temporanee esigenze aziendali, sia in ragione del soddisfacimento dell’interesse dei lavoratori di un medesimo livello di inquadramento volto a valorizzare la loro “professionalità potenziale”.

I dettagli del cambiamento della riforma

Il D. Lgs. 15 Giugno 2015, n.81, attuativo della legge n.183/2014 ha riscritto la norma. Esso, infatti, al comma 1, sancisce un principio generale, ossia che il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle acquisite attraverso lo sviluppo del proprio iter professionale, ed ancora che lo stesso possa essere adibito a mansioni di pari livello all’interno della categoria di appartenenza, corrispondenti alle ultime effettivamente svolte.

  Rispetto alla precedente formulazione si nota immediatamente l’assenza di un qualsiasi riferimento alla “equivalenza delle mansioni”.

Inoltre la norma così riformulata prevede una possibilità del tutto nuova e, se così si può dire, avulsa dalla tradizionale ottica lavoristica di tutela del lavoratore inteso quale soggetto, non soltanto obbligato, a fronte di un corrispettivo, ad eseguire una prestazione, ma come soggetto partecipativo, con il proprio essere, al lavoro, che però ben si concilia con una più ampia ottica di  contemperamento dei diritti e dell’interesse alla conservazione dell’occupazione; ossia stabilisce una serie di ipotesi nelle quali è possibile demansionare il lavoratore. 

Le nuove disposizioni in materia di flessibilità delle mansioni si inquadrano dunque in una visione nuova. 

La riforma operata dal D. Lgs. n. 81/2015, ha comportato una totale riscrittura dell’art. 2103, introducendo così diversi profili innovativi alla disciplina delle mansioni. Quattro sono state ritenute le novità degne di particolare attenzione da parte dei giuslavoristi: a) l’abbandono del criterio di equivalenza professionale inteso come limite al mutamento delle mansioni e sostituito da una tutela della professionalità intesa in senso generico, come appartenenza ad un determinato livello di inquadramento; b) la disciplina e previsione della possibilità di adibizione del lavoratore a mansioni inferiori; c) riferimento al concetto di formazione; d) lo spostamento verso mansioni superiori. 

Gli aspetti positivi del nuovo art. 2103 c.c.

Se la norma così come appena illustrata può recare perplessità circa lo svilimento del criterio di professionalità a lungo ricercato e riempito di contenuto dalla giurisprudenza, bisogna dire che vi sono anche molteplici profili positivi per cui la stessa si fa apprezzare. 

Difatti, gli obiettivi, dapprima di contemperamento e poi di efficienza, che la norma riformulata può raggiungere possono essere così rappresentati:

  • semplificazione della gestione aziendale;
  • si attribuisce nuovamente alla contrattazione collettiva ruolo decisivo e determinante;
  • forte valorizzazione del principio della stabilità del rapporto di lavoro e il licenziamento potrà giustificarsi solo nel caso di insistenza di un posto vacante appartenente al livello di inquadramento del lavoratore (o a quello immediatamente inferiore come la norma stessa prevede nelle ipotesi di possibile demansionamento). 

Una delle più rilevanti novità della riforma è dunque certamente da individuarsi nella possibilità di adibire il lavoratore a mansioni inferiori.  Il nuovo testo del 2103 cod. civ., al comma 2, stabilisce che, in presenza di variazione degli assetti organizzativi aziendali che incidano sulla posizione del lavoratore, è possibile assegnare lo stesso a mansioni riferite ad un livello di inquadramento inferiore, purché si resti nella stessa categoria legale di inquadramento. 

Orbene la variazione degli assetti produttivi dell’azienda rientra tra i poteri organizzativi dell’imprenditore, non necessariamente mediati da alcuna trattativa sindacale, la detta variazione dovrà però incidere direttamente sulla posizione del lavoratore, come ad esempio nel caso di soppressione di una posizione lavorativa a seguito della introduzione di procedure di razionalizzazione o esternalizzazione di parte dell’attività produttiva. 

La norma opera una distinzione tra due diversi tipi di spostamento: uno operato unilateralmente dal datore di lavoro, l’altro deciso consensualmente.

In questo caso le parti sono libere di ridefinire le mansioni ed il relativo trattamento corrispettivo, l’unico limite è rappresentato dal fatto che l’accordo deve essere raggiunto nelle sedi indicate dal quarto comma dell’art 2103 c.c. o dinanzi alle commissioni di certificazione di cui all’art. 76 del D. Lgs. n. 276 del 2003. 

A ogni buon conto se è vero che, al comma 6 del nuovo art. 2103 cod. civ. il Legislatore delegato introduce una novità di non poco conto, ossi che le parti, nell’ottica della prevista possibilità di modifica delle mansioni più elastica rispetto alla precedente formulazione, possano sottoscrivere un accordo di modifica delle mansioni, della categoria legale, del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, vi è da dire che non poche difficoltà si incontrano nel dover distinguere tra i due tipi di spostamento: tra quello che sembra configurare uno jus variandi in peius e quello operato sulla base di una accordo per soddisfare l’esigenza del lavoratore a conservare l’occupazione. 

La previsione dell’istituto della formazione

Una delle modalità attraverso cui il Legislatore ha pensato consentire e agevolare la pratica dello spostamento a mansioni inferiori, per facilitare la riorganizzazione aziendale, è la previsione dell’istituto della formazione

Finalità della formazione è dunque quella di preparare adeguatamente il lavoratore che venga adibito a mansioni per il cui svolgimento non è sufficiente il bagaglio professionale posseduto. Ed ecco qui che si palesa in modo chiaro ed incontrovertibile l’esigenza del Legislatore di eliminare dal testo dell’art. 2103 il criterio di “equivalenza”. 

Ulteriore elemento innovativo di questa riforma risiede nella rielaborazione dello spostamento verso mansioni superiore previsto dal comma 7, dell’art. 2103 c.c. che vede al suo interno l’inclusione della categoria dei quadri, per i quali invece era prevista apposita disciplina. Le modifiche nell’ambito preso in esame sono sostanzialmente tre, avendo anche il testo riformato seguito lo schema del “vecchio” art. 13: 

1) Si è intervenuti a modificare la formula che delineava la fattispecie produttiva dell’effetto della definitività della assegnazione a mansioni superiori e, dunque, alla promozione automatica. Riformato seguito lo schema del “vecchio” art. 13; 2) Pur continuandosi ad affidare all’autonomia collettiva il compito di fissare il termine decorso il quale si produce la promozione (come già nella disciplina previgente), questa volta il rinvio è libero, prevedendo solo il limite suppletivo a sei mesi. 3) È stato introdotto un limite per l’assegnazione a mansioni superiori in capo al lavoratore: il lavoratore non deve aver espresso volontà contraria, compromettendo, a livello individuale il diritto alla promozione.  

È chiaro che l’esercizio dello jus variandi non dà luogo ad un patto contrario alla disciplina legale ma, se così si può dire, ad un ampliamento dello spazio negoziale di cui può disporre il datore di lavoro.

Conclusioni sul Mutamento mansioni e jus variandi

Le riflessioni al termine della analisi operata ci conducono a considerare questa riforma, di certo innovativa per un giuslavorista, tanto nella materia quanto nei contenuti, con una notevole indecisione interpretativa. 

La stessa si è infatti, costantemente, prestata ad un doppio punto di vista: quello datoriale da una parte e quello del lavoratore dall’altra, come è consueto che sia nella disciplina del lavoro, ma con un sentire questa volta, a mio avviso, notevolmente diverso. 

Appare una riforma, a differenza delle altre, non tanto protesa alla affermazione e/o miglioramento di un diritto, quanto, come lo stesso titolo di questo lavoro recita, protesa ad un contemperamento che affonda le sue radici nella rigidità economica del tempo che stiamo vivendo. 

Intervenire in siffatto modo sulla materia delle mansioni, prevedendo anche la possibilità di spostamento a mansioni inferiore, attraverso il contestuale abbandono del criterio dell’equivalenza, vuol dire consentire al mercato del lavoro di determinare un’auto bilanciamento basato sulla conservazione dei diritti acquisiti se non anche ad una rinuncia, cosciente, da parte dei lavoratori, e questo al fine della conservazione dell’occupazione. 

Abbiamo più volte richiamato il concetto di “professionalità”, oggetto di lunghe discussioni, sia in sede normativa che in sede interpretativa da parte della giurisprudenza. Oggi, il concetto di professionalità del lavoratore, sembra quasi offuscarsi se non affievolirsi tra le trame della riforma e ciò per lasciar spazio ad una norma che consenta al datore di lavoro di gestire, più agevolmente, e con minori limiti (anche da parte della contrattazione collettiva), l’assetto organizzativo della propria azienda.

Autore: Avv. Sara De Novellis, Legale interno di in.HR Agenzia per il Lavoro SpA

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