Mentre nel mondo del lavoro siamo spesso inclini a concentrarci sulle manifestazioni più evidenti di insoddisfazione dei dipendenti, come le dimissioni o le proteste aperte, c’è un fenomeno altrettanto significativo e insidioso che spesso sfugge all’attenzione: il “quiet quitting“. Questo fenomeno, sebbene meno plateale, può minacciare in modo altrettanto grave l’efficienza aziendale e il benessere dei lavoratori.
Scopriamo perché non dobbiamo sottovalutare il quiet quitting, partendo dal suo significato fino alle conseguenze che può avere per il lavoratore e l’azienda.
Quiet quitting: cos’è e perché sta diventando una tendenza
Lavorare lo stretto necessario per non trascurare la propria vita privata, non aderire a straordinari o a impegni che vadano al di là dell’orario di lavoro e rifiutare qualsiasi responsabilità non prevista dal contratto: sono queste le basi del quiet quitting, tendenza esplosa in America e in netta opposizione con la “hustle culture”, il mito del lavoro frenetico che ha un impatto tossico sul benessere psicofisico.
Quindi, cosa si intende per quiet quitting?
Reso popolare su TikTok nel 2022, il termine quiet quitting, che possiamo tradurre in “abbandono silenzioso”, rischia però di essere fuorviante, dal momento che il lavoratore non lascia il proprio posto e continua a riscuotere uno stipendio. Tuttavia, nelle dinamiche del quiet quitting, il dipendente si impegna il minimo indispensabile per mantenere il proprio posto di lavoro, ma non il possibile per il suo datore di lavoro. Ciò potrebbe significare non dimostrare coinvolgimento durante le riunioni, non offrirsi volontario per compiti e rifiutarsi di svolgere mansioni extra, ma potrebbe anche comportare un maggiore assenteismo.
I datori di lavoro e gli specialisti delle risorse umane possono contrastare il quiet quitting creando una cultura in cui i dipendenti si sentono apprezzati, garantendo che tutti comprendano l’importanza del proprio lavoro e gestendo le aspettative nei confronti dei propri dipendenti.
Great resignation: una conseguenza del quiet quitting?
Negli ultimi anni, il mondo del lavoro è stato testimone di un fenomeno noto come “great resignation” o “grandi dimissioni”. Questo termine è stato coniato per descrivere l’ondata di dimissioni volontarie che sta colpendo vari settori in tutto il mondo. Secondo uno studio condotto dalla società di consulenza McKinsey, quasi il 40% dei lavoratori a livello mondiale sta pensando di lasciare il proprio lavoro, persino senza avere una solida alternativa. Questo fenomeno sta assumendo proporzioni senza precedenti, e l’Italia non è esente da questa tendenza. Secondo il 5° rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale, più dell’80% dei lavoratori italiani si dichiara insoddisfatto, e il 23% degli intervistati ritiene che la situazione possa solo peggiorare.
Tuttavia, c’è un interrogativo che si pone: il great resignation potrebbe essere una conseguenza del quiet quitting?
Per comprendere meglio questa dinamica, è importante esaminare le connessioni tra questi due fenomeni. Il quiet quitting è caratterizzato dal disimpegno progressivo e silenzioso dei dipendenti, che possono sentirsi stanchi, insoddisfatti o semplicemente non più motivati nel loro ambiente di lavoro, e che possono manifestare un calo di produttività, una ridotta partecipazione alle attività aziendali o un semplice distacco emotivo.
Dall’altra parte, le dimissioni del great resignation sono spesso una dichiarazione più aperta di insoddisfazione e desiderio di cambiamento. Molti lavoratori, invece di sopportare silenziosamente una situazione di lavoro che non li soddisfa, scelgono di abbandonare il loro posto di lavoro e cercare opportunità migliori altrove.
Tuttavia, c’è un legame tra questi due fenomeni. Il quiet quitting può fungere da fase preliminare o da campanello d’allarme per il great resignation. Le ragioni alla base di entrambi questi fenomeni possono essere simili: insoddisfazione per il lavoro, mancanza di sviluppo professionale, stress e sovraccarico di lavoro.
Ma perché questi due fenomeni si stanno manifestando in modo così diffuso? Una delle ragioni chiave risiede nella trasformazione del cosiddetto “contratto psicologico” tra datore di lavoro e dipendente. Nel corso degli ultimi decenni, questo accordo implicito è passato da un modello “transazionale” a uno “relazionale”. In passato, ai lavoratori veniva richiesto di svolgere compiti specifici in un orario definito (solitamente dalle 9 alle 18).
Oggi, al contrario, i responsabili chiedono ai dipendenti di essere creativi, di contribuire con idee originali e di accettare sfide per migliorare i risultati aziendali. Se da un lato questi obiettivi rendono il lavoro meno monotono e disumanizzante, dall’altro comportano una maggiore richiesta di impegno mentale, orari lavorativi prolungati e necessitano di una cultura aziendale che riconosca e valorizzi tali sforzi. Infatti, secondo il rapporto Censis-Eudaimon, il 40% degli italiani afferma di non avere tempo libero dopo il lavoro, il che contribuisce all’insorgere di questo fenomeno.
Cosa causa il quiet quitting sul lavoro?
Le ragioni alla base del quiet quitting sono molteplici e complesse. In primo luogo, la pandemia ha evidenziato l’importanza di valorizzare gli aspetti della vita al di fuori del lavoro per molte persone. Questa nuova consapevolezza ha spinto i dipendenti a riconsiderare il loro rapporto con il lavoro e a cercare un equilibrio tra vita professionale e personale.
In secondo luogo, temi come il burnout, la salute mentale e lo stress legato al lavoro sono diventati sempre più prominenti nel dibattito pubblico. Questa crescente consapevolezza ha spinto i lavoratori a riflettere sulle condizioni del loro impiego e a cercare modi per proteggere la propria salute mentale.
Un’altra teoria, avanzata dalla Harvard Business Review, suggerisce che il quiet quitting non sia tanto il desiderio dei dipendenti di lavorare di più o di meno, ma piuttosto una questione di rapporto tra i manager e i loro impiegati. Secondo il rapporto “2022 State of Global Workplace” di Gallup, solo il 14% dei dipendenti europei è veramente coinvolto nel proprio lavoro. La tesi della Harvard Business Review è che il diffondersi del quiet quitting sul lavoro sia in gran parte dovuto all’incapacità dei manager nel conciliare gli obiettivi aziendali con il benessere individuale e collettivo dei dipendenti.
Questo fenomeno è destinato a crescere, soprattutto tra i membri della Generazione Z, per i quali il guadagno non è la priorità principale sul lavoro, ma l’obiettivo è piuttosto l’equilibrio tra la carriera e la vita personale. Di conseguenza, le aziende devono affrontare il quiet quitting in modo proattivo, adottando strategie che tengano conto delle esigenze dei dipendenti e promuovano un ambiente di lavoro sano ed equilibrato.
Quiet quitting sul lavoro: 3 modi per contrastarlo
Il quiet quitting rappresenta una sfida crescente per molte aziende, perché può avere un impatto significativo sulla produttività e sul coinvolgimento aziendale, ma ci sono diverse strategie che il team delle risorse umane e la leadership possono adottare per contrastarlo efficacemente. Vediamo tre approcci che possono dare buoni risultati.
Lavorare innanzitutto sul coinvolgimento dei responsabili
Secondo un sondaggio condotto da Gallup, solo un responsabile su tre è veramente impegnato sul lavoro e, poiché rappresentano il punto di contatto quotidiano con i dipendenti, è essenziale affrontare questa sfida per prevenire il disinteresse tra tutti i lavoratori. Un passo cruciale che le aziende possono intraprendere è il reclutamento e la formazione dei responsabili per rendere più stimolante l’ambiente di lavoro, che sia in presenza o da remoto. Inoltre, è fondamentale garantire che i responsabili siano adeguatamente preparati per aiutare i dipendenti a gestire lo stress e il burnout, altrimenti, questi fattori potrebbero contribuire al quiet quitting.
Fissare obiettivi individuali e di gruppo
I dipendenti che non percepiscono uno scopo o una direzione sono molto più inclini al quiet quitting sul posto di lavoro. Una delle strategie più efficaci per affrontare questa sfida, o prevenirla del tutto, è creare una cultura aziendale in cui ogni dipendente comprenda il motivo per cui il proprio ruolo è importante all’interno dell’azienda.
Ci sono diverse modalità per raggiungere questo obiettivo, come la programmazione periodica di riunioni collettive o comunicazioni aziendali finalizzate a condividere aggiornamenti e mettere in luce la mission e i valori fondamentali dell’azienda. L’essenziale è garantire che tutti i dipendenti comprendano appieno come il loro lavoro contribuisca agli obiettivi complessivi dell’azienda.
Premiare e riconoscere i risultati ottenuti
Un’altra causa che favorisce il quiet quitting è il mancato riconoscimento del lavoro svolto dai dipendenti. Per evitarlo è cruciale riconoscere e premiare regolarmente il buon lavoro dei membri del team.
Le strategie motivazionali possono variare notevolmente da un’azienda all’altra. Ad esempio, alcune aziende potrebbero optare per un programma di riconoscimento meritocratico dei dipendenti, che, secondo uno studio di Deloitte, può portare a un aumento del coinvolgimento, della produttività e delle prestazioni fino al 14%. Tuttavia, anche un semplice “grazie” per il contributo quotidiano può fare la differenza, come indicato da un altro sondaggio di Deloitte, in cui tre quarti dei dipendenti hanno affermato che sarebbero soddisfatti anche di un semplice ringraziamento verbale.