Frequentemente si sente parlare del tema del gender pay gap, nonché la diversità tra i salari medi degli uomini e quelli delle donne che svolgono un lavoro ricompensato. Solitamente si fa riferimento solo alle lavoratrici ed ai lavoratori dipendenti e si differenzia dal concetto equal pay for equal work, che sostiene, al contrario, la parità salariale tra i due sessi per mansioni lavorative uguali o equiparabili.
Secondo una ricerca dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) condotta su 70 nazioni – che copre dunque l’80% della popolazione mondiale di lavoratrici e lavoratori dipendenti – le donne guadagnano in media il 20% in meno rispetto agli uomini. Questa divergenza salariale continua a riprodurre una delle ingiustizie sociali più estese a livello planetario.
Da sempre l’Italia appare virtuosa rispetto agli altri Paesi, perché dalle statistiche risulta abitualmente un gap di salari complessivo fra uomini e donne molto contenuto. Si prenda, ad esempio, uno degli ultimi studi secondo il quale il gender pay gap italiano si aggira attorno al 5,5%. Niente se confrontato al 19% del Regno Unito, al 18% circa degli Stati Uniti, al 15,8% della Francia e al 15% della Spagna, solo per fare alcuni esempi. Ma c’è poco da celebrare. Il dato, infatti, non tiene conto di altri fattori determinanti che caratterizzano il nostro mercato del lavoro, come per esempio il tasso di occupazione femminile e le diverse qualifiche professionali.
Le donne italiane, secondo un comunicato del Censis, corrispondono al 42,1% degli occupati totali del paese e il tasso di attività femminile è del 56,2% (gli uomini che lavorano sono il 75,1%). In Europa, la Svezia è la nazione che ha il più elevato tasso di occupazione delle donne che raggiunge l’81,2%: l’Italia è in fondo alla classifica.
Ma perché ci sono queste evidenti diversità nelle retribuzioni tra uomini e donne?
La Costituzione italiana garantisce il principio di parità salariale fra uomo e donna (art. 37), ribadito anche dall’art. 157 del trattato sul funzionamento dell’Unione Europea. Eppure, le statistiche di cui sopra parlano chiaro: il divario c’è. Ma perché?
Una convinzione comune è quella che sostiene che le donne guadagnano meno a causa dei lavori meno qualificati che svolgono, e quindi meno pagati. Continuando con la logica di questa teoria, le donne ricoprirebbero incarichi meno apicali di quelli degli uomini perché impegnate nell’organizzazione domestica e nell’accudimento dei figli, avendo così con meno tempo da dedicare al lavoro.
A dirla tutta le donne sono ricompensate meno per eseguire lo stesso lavoro svolto dai lavoratori di sesso opposto, a tutti i livelli professionali. La differenza nei salari tra uomini e donne si verifica in tutti i settori e tipi di occupazione. In generale, più la qualifica professionale è alta, più il divario si allarga. Le manager in Italia guadagnano in media il 23 per cento in meno dei loro colleghi.
In altri casi l’avanzamento di carriera viene ostacolato dalle mancate opportunità di formazione o dai sistemi di incentivazione del personale (bonus, premi di produzione o altri incentivi monetari), discriminazioni che si presentano spesso anche come conseguenza di fattori culturali e storici. Inoltre molto spesso i lavori fisici svolti tradizionalmente dagli uomini sono ritenuti superiori a quelli esercitati dalle donne, ad esempio un magazziniere percepirà più di una cassiera di supermercato. Questo insieme di variabili finisce per creare il ben noto “soffitto di cristallo” che intralcia le donne a raggiungere le posizioni più redditizie
Il cambiamento è possibile?
Secondo il World Economic Forum al moto attuale ci vorranno precisamente 257 anni perché il gap retributivo venga riempito. Negli ultimi anni sono nati diversi movimenti sociali e manifestazioni volte a favorire una cultura più inclusiva ed un equilibrio di genere. Una tra le tante è Valore D, la prima associazione di imprese in Italia a dedicarsi a questa tematica sempre più calzante. Le donne dirigenti sono in crescita, ma sono ancora poche (16,6 per cento nel settore privato). Figli e famiglia continuano a pesare sulle possibilità di carriera (e stipendio) della madre. La flessibilità oraria, uno dei punti del Manifesto di Valore D, potrebbe dunque aiutare.
A incidere sul gender pay gap c’è anche la capacità di negoziazione. Se le donne molto spesso accolgono la prima proposta, gli uomini contrattano e ottengono compensi più alti. Sviluppare quest’abilità potrebbe aiutare molte donne a qualificare il proprio lavoro, dando più voce ai propri diritti lavorativi.
In Francia qualcosa di importante si sta gradualmente smuovendo. Dal 2022 le imprese francesi con più di 50 dipendenti e con un gap retributivo di genere non giustificabile saranno costrette a pagare una sanzione che potrà arrivare fino all’1% del monte salari. Il progetto di Parigi prevede anche un incremento dei controlli e l’utilizzo di un software che aiuterà ad identificare il dislivello retributivo di genere in seno alla stessa organizzazione. I sindacati si esprimono proprio su questo aspetto: lo strumento informatico dovrà verificare criteri oggettivi nazionali, che non possono essere lasciati all’arbitrio delle aziende.
La parità di genere ricade profondamente sul progresso delle società. La partecipazione delle donne nel mercato del lavoro deve essere incentivata e sostenuta, per sconfiggere una radicata diseguaglianza ma anche per favorire la crescita economica dei paesi.